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Nel Paese c’è troppo disagio, che si traduce nella voglia di cambiare tutto

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Anche se si registra una moderata crescita del Prodotto interno lordo e della occupazione, molti dati ci dicono che una fascia ampia di famiglie, valutabile intorno al 30% con punte anche più alte nel Mezzogiorno, sta soffrendo per indigenza, mancanza di occasioni di lavoro, condizioni occupazionali precarie. Dall’inizio della crisi nel 2008 le disuguaglianze sono cresciute (ancora più nelle regioni del Sud), è aumentato il lavoro nero e le persone a rischio di povertà sono aumentate di tre milioni. Chi vive queste condizioni di disagio è più portato a esprimere un voto di protesta perché comunque ha (o crede di avere) ben poco da perdere.

Il voto degli italiani, domenica prossima, sarà fortemente influenzato dalle condizioni di disagio di una parte della popolazione, che induce a scelte di protesta o a fughe dalla realtà alla ricerca di soluzioni impossibili. Chi è profondamente insoddisfatto della propria situazione tende a rimettere tutto in discussione, anche a costo di rischiare grandi rivolgimenti che forse non porteranno effettivi benefici. Ma tanto vale provarci…

Cerchiamo di delimitare questa area del disagio, guardando alle condizioni di lavoro, alla povertà, al senso di precarietà che avvelena la vita di molti connazionali.

Il lavoro.  Possiamo cominciare con un recente studio sulla disoccupazione pubblicato da Antonino Iero su Economia e Politica.

Partendo dal fatto che la misura internazionale degli occupati rileva quante persone nella settimana di riferimento hanno effettuato almeno un’ora di lavoro retribuito (un’ora!) l’autore ha ricercato una misura più completa, valutando quattro categorie:

  • i disoccupati veri e propri, cioè quelli che hanno attivamente ricercato un lavoro;
  • i lavoratori part time sottoccupati;
  • le persone inattive che hanno cercato lavoro anche se non sono immediatamente disponibili a cominciare l’attività;
  •  le persone prive di lavoro disponibili ad accettare un’occupazione ma che non hanno svolto attività di ricerca di un’occupazione.

 

Le ultime due categorie, scrive Iero,  sono definite “forza di lavoro potenziale addizionale” poiché, pur ricadendo, secondo i criteri dell’Ilo (l’organizzazione internazionale del lavoro), all’interno della definizione di popolazione inattiva, evidenziano una certa disponibilità a partecipare al mercato del lavoro che non si concretizza per ragioni in buona parte indipendenti dalla loro volontà”.

Il quadro relativo al secondo trimestre del 2017 (ma è probabile che le cose da allora siano cambiate poco) pone l’Italia al terzo posto (in negativo) in Europa, dopo Grecia e Spagna, con un totale del 27% circa della forza di lavoro potenziale che possiamo definire in “disagio lavorativo”, che cioè rientrano in una delle quattro categorie: circa 6,8 milioni di persone. Rispetto agli altri grandi Paesi europei, è particolarmente forte la componente dei cosiddetti scoraggiati, che vorrebbero un lavoro ma non lo cercano,  pari al 45% delle persone in situazione di disagio lavorativo. Al confronto, nella media dell’eurozona sono solo il 23% del totale della forza lavoro potenziale.

Anche l’Istat , nei dati complementari sul mercato del lavoro della sua banca dati I.Stat, calcola le forze di lavoro potenziali, cioè in pratica gli scoraggiati: nel secondo trimestre 2017 erano più di tre milioni, di cui quasi due milioni nel Mezzogiorno, dove risiede poco più di un terzo della popolazione italiana. Il disagio lavorativo, insomma, si annida soprattutto nelle regioni che offrono così poche opportunità da indurre le persone, anche se desiderose di lavorare, a rinunciare alla ricerca. Possiamo approfondire questa valutazione con due zoom. Il primo riguarda le donne, che compongono il 58% di questo insieme. Il secondo i giovani, nella fascia più indicativa, a mio giudizio, del disagio lavorativo, quella tra i 25 e i 34 anni: dei 663mila scoraggiati di quell’età, ben 435mila stanno nel Mezzogiorno: circa i due terzi!

La povertà. Possiamo misurarla con diversi indicatori.

  • La povertà assoluta. In base agli ultimi dati resi noti dall’Istat nel luglio 2017, si stima che nel 2016 fossero 1 milione e 619mila le famiglie residenti in condizione di povertà assoluta, cioè non in grado di assicurarsi un paniere di beni e servizi essenziali. In queste famiglie vivevano 4 milioni e 742mila individui. L’incidenza maggiore si ha nelle classi fino a 17 anni (12,5%) e dai 18 ai 34 (10%).
  • La povertà relativa. Nel 2016 riguardava il 10,6% delle famiglie residenti, per un totale di 2 milioni 734mila, e 8 milioni 465mila individui, il 14,0% dei residenti. Il 57,7% delle persone considerate povere secondo questo criterio risiede nel Mezzogiorno, a fronte di una percentuale del 34,4% di residenti rispetto al totale della popolazione italiana. Ricordiamo che viene definita povera una famiglia di due componenti con una spesa per consumi inferiore o pari metà della spesa media. Per famiglie di diverse dimensioni si applicano scale di equivalenza. L’Istat ci fornisce anche la valutazione delle famiglie “quasi povere”, che cioè superano la linea convenzionale di meno del 20%. È “quasi povero” il 7,0% delle famiglie mentre il 3,3% ha valori di spesa superiori alla linea di povertà di non oltre 10%, quote che salgono rispettivamente a 11,1% e 5,9% nel Mezzogiorno. In base ai dati dell’Istituto di statistica, le famiglie “sicuramente” non povere sono l’82,4% del totale, con valori pari a 90,1% nel Nord, 84,8% nel Centro e 69,2% nel Mezzogiorno. Dunque nel Sud e nelle Isole le famiglie povere o a rischio di povertà sono oltre il 30% del totale.
  • Le persone a rischio di povertà. Leggermente diversi, ma ancor più allarmanti, i dati di Eurostat: sulla base dell’indagine Eu Silc, indica che nel 2016 le persone a rischio di povertà in Italia erano 18 milioni137mila, con un aumento di 3 milioni 55mila rispetto al 2008. Si tratta della percentuale più elevata in Europa dopo Grecia e Bulgaria.

 

Le diseguaglianze. L’aggravarsi delle distanze di reddito tra i più ricchi e i più poveri è un altro elemento che suscita profondo scontento. Dalle elaborazioni fatte dall’Istat per L’Espresso si vede che la differenza di reddito tra il 20% più povero e il 20% più rcco della popolazione è passato da 5,2 volte nel 2008 a 6,3 nel 2016 ed è particolarmente alto in alcune regioni del Sud. Nello stesso periodo, infatti l’indice nel Mezzogiorno è salito da 5,6 a 7,2.

Si potrebbe continuare enunciando tanti altri dati negativi: la dimensione dell’economia sommersa, che secondo un’indagine Censis – Concooperative riguarda 3,4 milioni di lavoratori, pagati mediamente la metà di un dipendente in regola; la precarietà, rappresentata da 2,5 milioni di lavoratori con un rapporto a termine. Per non parlare della situazione sanitaria, descritta da un articolo di Maria De Paola sulla voce.info: la differenza nella speranza di vita tra Firenze e Caserta arriva a quattro anni.

Questi dati ci dicono che, anche se il Paese nel suo complesso fa registrare una moderata ripresa economica, espressa in termini di prodotto interno lordo (Pil) e di occupazione complessiva, continua a esistere una forte area di disagio, che influenza gli atteggiamenti di quasi un terzo della popolazione italiana, se ci atteniamo al dato di Eurostat. Impossibilità di trovare lavoro, situazione effettiva di povertà e rischio di povertà, sommate al senso di incertezza che deriva dalla precarietà di molti lavori hanno dato vita a una fascia di persone fortemente scontente della loro attuale situazione e pronte a qualsiasi avventura elettorale.  Le situazioni peggiori si riscontrano nel Mezzogiorno. I programmi elettorali parlano ben poco del Sud, forse perché il problema è considerato così annoso e scontato da non far più notizia e da non spostare voti. Eppure, se non si affronterà con più decisione il problema di questa parte della popolazione e di questi territori, sarà difficile avere maggioranze adeguate per governare il Paese.


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